Il 9 Marzo 2011 Antonio Perri ha tenuto una conferenza nel modulo coordinato da Beppe Chia, Luciano Perondi e me medesimo all’Isia di Urbino.
Il fuoco della conferenza è stato: la scrittura non è riducibile alla rappresentazione visiva del parlato.
L’argomentazione è stata complessa e gli esempi sono stati molti, per dirne sono alcuni: le forme di scrittura non alfabetica; l’impossibilità di trasformare in parole le caratteristiche grafiche di un testo come il carattere scelto, i corsivi e i grassetti; la presenza quotidiana di testi non verbalizzabili in modo univoco (ad esempio le bollette o le bolle di accompagnamento dei pacchi).
Su questa cosa ci sarebbe moltissimo da dire, chi vuole può leggere intanto altri post di questo blog, la voce Scrittura scritta da Perri in Culture e discorso, il suo saggio “Il problema delle unità minime nella scrittura azteca” e gli articoli di Giovanni Lussu e Daniele Turchi.
Ai fini di questo post mi sono però limitato a dare un’occhiata a qualche voce di scrittura presente sulle enciclopedie e ne ho scelte tre, una è tratta da Wikipedia, le altre due da enciclopedie Treccani di diversi periodi storici.
Ve le scrivo sotto e vi sfido a collegare la fonte da cui sono tratte.
1) “Modo di rappresentare visivamente, attraverso tracce grafiche, in tutto o in parte, i segni linguistici o le loro sequenze.”
2) “La scrittura è la rappresentazione grafica della lingua per mezzo di lettere o altri segni (grafemi).”
3) “Mezzi di comunicare ai propri simili pensieri, idee, avvenimenti, sia nel tempo, sia nello spazio (…).”
La prima definizione è tratta dall’attuale Enciclopedia on line di Treccani, la 2 da Wikipedia, la 3 dall’Enciclopedia italiana Treccani del 1936.
Nella 1 e 2, la scrittura è considerata una rappresentazione di qualcosa d’altro, che sta altrove e che grazie alla scrittura prende forma materiale, si concretizza.
Nella terza la scrittura non rappresenta ma comunica.
Ora chiedo a voi di giudicare quale di queste definizioni sia più vicina al nostro tempo. Senza inoltrarsi in questioni teoriche e disciplinari, lo faremo in altri post, vi chiedo se pensate davvero che la massa delle cose scritte sui siti web e sui blog, i commenti, le chat, le e-mail, i grafici, siano la rappresentazione grafica di qualcosa d’altro, magari espresso in forma orale, un discorso della durata di qualche migliaio di anni diciamo.
Se qualcuno sa dov’è questa fonte delle nostre scritture può segnalarlo via e-mail o con un commento, così poi possiamo creare una linea (tipo quella che segnala i voli sugli schermi di un aeroporto) e farci scorrere in sequenza una parola dopo l’altra, fino a rappresentare graficamente tutto il pensiero.
Ho appena scritto, con Luciano Perondi, un lungo articolo, e l’ho fatto direttamente su Prezi. Non ho rappresentato in forma grafica i pensieri, al contrario, ho creato delle forme testuali e dei rapporti tra forme testuali da cui sono scaturiti poi dei pensieri ed altra scrittura.
Quella cosa che ho scritto, degna o meno che sia, ha un’esistenza materiale difficile da negare, eventualmente potrà essere resa anche attraverso sequenze di parole (ma non una sola sequenza) e non so perché dovrei trasformarla in una sequenza di parole per far sì che sia leggibile in modo lineare magari ad alta voce.
Mi considero ormai dunque, almeno in parte, un degradato Homo videns che non articola più il pensiero solo attraverso le parole, quasi del tutto entrato nella terza fase del declino culturale e della perdita della sottigliezza.
Leonardo Romei
Sì, vedo le differenze tra parlato e scritto, ma vedo anche somiglianze.
Penso che anche tu veda somiglianze e differenze.
Anche il gesto, volgare, di poggiare la mano sinistra sull’avambraccio destro flesso, ha un uso spesso molto chiaro ed efficace.
Anch’esso é diverso dal parlare, ma posso trovare traduzioni accettabili, anche se non altrettanto efficaci.
Tu non hai perso sottigliezza, non stai declinando culturalmente.
Sei solo astuto come Ulisse.
come al solito, concordo pienamente.
la definizione della treccani del ’36 è fantastica.
A proposito del commento di Giorgia Leontino, un’osservazione e un suggerimento per ulterori ricerche. L’osservazione: Wittgenstein ha affermato di aver messo in crisi la sua teoria logico-rappresentazionale del linguaggio come immagine esposta nel Tractatus dopo che in treno il suo amico economista Piero Sraffa lo sfidò a “tradurre” verbalmente (dunque sintatticamente, dunque linearmente) un tipico gesto napoletano – credo si trattasse di quello prodotto strusciando il dorso della mano sotto il mento con un movimento verso avanti sino a c0mpletarlo nello spazio ‘vuoto’ di fronte al viso, spesso glossato con ‘me ne frego’, o qualcosa di simile (ma, appunto, intraducibile). Ne sarebbe emersa l’idea di linguaggio come azione, di significato come uso eccetera eccetera. Il suggerimento, invece. La persistente arroganza alfabetica con cui gli studiosi di lingue dei segni insistono a ‘glossare’ i segni con parole delle lingue verbali andrebbe a mio avviso ripensata: forse per trascrivere il segnato sistemi notazionali anche rigidi ma tendenzialmente bidimensionali come il Sign Writing aprono strade nuove alla comprensione, senza imporci di pebnsare che ogni volta si debba ‘dar voce’ al segnato per capirlo.
Sraffa viene ringraziato da Wittgenstein, per il suo decisivo contributo, nella prefazione delle Ricerche.
Quale era il segno di Sraffa? Io propendo per il mio, ma cambia poco.
“Qual’é la grammatica di questo?” fu la domanda di Sraffa.
Credo sia prudente che si torni ogni tanto all’uso ordinario, per dare almeno una controllata.
A volte una osservazione terra terra vale molto e aiuta molto.
In un’intervista* concessa a me e Rosanna Consolo nel 2009, Tullio De Mauro metteva proprio in relazione il linguaggio dei gesti napoletano (o meglio mediterraneo) con la lingua dei segni. In quel contesto De Mauro poneva l’accento sul fatto che il primo (il linguaggio dei gesti) manca di articolazione sintattica e soprattutto della capacità di parlare di se stesso (meta-linguisticità). Il secondo invece, in quanto vera e propria lingua, è dotato di queste due proprietà.
In questo modo lo stesso De Mauro, ma non vorrei fargli dire più di quello che dice, di fatto parlava di sintassi non lineare e di una lingua non orale (per definizione) riconoscendole le stessa proprietà di una lingua orale e dalla sintassi lineare.
Il punto mi sembra dunque sottolineare l’autonomia – il che non significa intraducibilità (come infatti dice Gorgia) – di diversi tipi di articolazioni sintattiche ed anche andare oltre l’accoppiamento di una sintassi con gli “ingredienti” coinvolti: alfabeto, gesti, immagini.
Sarebbe bello avere un post sulla lingua dei segni.
*”Cultura intellettuale e identità della comunicazione”, intervista a Tullio De Mauro, a c. di Rosanna Consolo e Leonardo Romei, “Comunicazionepuntodoc“, aprile 2009, pp. 13-44)
E’ proprio come dici tu, concordo.
Possiamo cercare dei limiti all’uso di disegni, o gesti, o altro mezzo simile.
Ad esempio, proviamo ad intervenire nel dibattito sulla esistenza di proposizioni analitiche, a priori, con un disegno. Mah.
Come sai, io amo le opere visive e le uso. Il mio non é disprezzo. Cerco di capire.
Infatti qui non si parla di fare un giochino per cui tutta un’argomentazione, tutto un discorso, lo si sostituisce per principio con dei disegni e delle figure eliminando le parole e le frasi, non è questo quello di cui si parla nei post: ad esempio i diagrammi di Eulero, i manoscritti di Galileo, gli schemi di Cirese, i graphical abstract e potrei aggiungere, per il futuro, la tavola periodica degli elementi di Mendeleev. Si parla di integrazione tra parole, forme visive e spazio che aumentano le possibilità conoscitive, non è un “meno” ma un “più”.
Ciao, io credo che la 3 definizione sia la più contemporanea.
Posso trasferire un pensiero/stato emotivo utilizzando la scrittura in questo modo 🙂 oppure “sono felice” e quale durerà più a lungo nel tempo?
P.s: Questo blog e fortemente una FIGATA!